La scuola sociologica che riconosce il suo capo in F. de Saussure (1857-1913) rappresenta una fase di transizione, o piuttosto una posizione mediana fra il vecchio e il nuovo, giacché essa considera il linguaggio come creazione individuale, ma limitata e vincolata da una necessità che è al di fuori dell’individuo. In questi c’è il bisogno di esprimersi e la possibilità di farlo con la «parola»; ma la sua attività linguistica si serve di mezzi che gli sono dati dalla società a cui appartiene, cioè la «lingua». È questa un prodotto sociale che esiste indipendentemente dal singolo parlante, il quale volta a volta con maggiore o minore successo se ne appropria. La lingua è costruita da un complesso di segni convenzionali elaborato in una comunità per adattamento reciproco. Sono segni arbitrari che non sono affatto giustificati dalla loro espressività naturale, ma debbono la loro esistenza e la loro efficacia all’uso collettivo. Essi esistono in quanto ciascuno si oppone nel sistema a tutto ciò che esso non è. La linguistica studia non la «parola» che è l’attività del singolo dalla quale ha inizio ogni innovazione, ma la lingua cioè l’organizzazione convenzionale di cui egli si serve. Tale studio è «sincronico» in quanto considera la lingua nella sua fase attuale, la somma delle convenzioni in uso, «diacronico» in quanto consideri le trasformazioni che hanno avuto luogo nel sistema. Di gran lunga più importante è lo studio sincronico, poiché da esso si ha il sistema nella sua realtà, quale esso è per tutta la massa dei parlanti, mentre la considerazione diacronica deve lasciar fuori l’innovazione linguistica che attiene alla «parola» e non alla lingua, e dovendosi limitare a definire le modalità con cui il mutamento si attua, deve limitarsi quasi esclusivamente ai mutamenti fonetici che sono i soli che vengono lentamente acquisiti.
- Pagliaro (1930), a pag.86